CERNUSCO LOMBARDONE |
SERENA BIOTTO ISTANBUL - TURCHIA |
Instanbul, 20 luglio 2009,
tra le attività svolte da Caritas Turchia a sostegno dei rifugiati iracheni, c’é il progetto chiamato “Gruppo donne” che abbiamo avviato da poco e dedicato a tutte quelle donne che, per motivi vari, non escono mai di casa e non hanno relazioni sociali, rischiando di chiudersi in se stesse e nei propri problemi. Lo scopo del progetto é quello di offrire a queste donne l’opportunità’ di ritrovarsi insieme, una volta a settimana, nel giardino di Caritas, per parlare, fare amicizia e svolgere varie attività. In questo modo possono confrontarsi, sfogarsi, raccontare i propri problemi e scoprire che spesso le loro difficoltà sono le stesse che anche le altre donne incontrano, e sentire così di non essere sole ma di far parte di un gruppo. Il progetto é appena partito e per ora abbiamo svolto due incontri. Nonostante le donne non si conoscessero tra loro, fin dal primo momento si é creato un clima di amicizia e vicinanza che ha favorito la comunicazione. Ci sono stati momenti di discussione di gruppo e momenti in cui le donne si confidavano a coppie, momenti di allegria con battute e risate alternati e momenti piu’ seri. Il mio timore iniziale che le donne non comunicassero tra loro per timidezza o che non fossero interessate a questo tipo di attività si é trasformato invece in entusiasmo quando ho visto la loro felicità nell’incontrarsi e la loro partecipazione attiva. Insieme abbiamo discusso sul tipo di lavori che sarebbe bello svolgere durante gli incontri: attività manuali come lavorare a maglia, ricamo, produzione di collane e orecchini con materiali vari; gite per la città alla scoperta dei luoghi più belli di Istanbul; seminari in cui magari invitare degli esperti che possano parlare di vari temi (ad esempio relativi alla salute, all’educazione dei figli....); e poi tutte hanno richiesto di fare insieme esercizi di inglese in vista della loro destinazione finale che sarà l’America o l’Australia. La mia idea era, tra le altre attività, di organizzare una sorta di cineforum, con proiezioni di film relativi al tema delle donne e della migrazione in particolare, con schede informative e discussioni di gruppo. Ma per tutte queste cose servono i soldi, per comprare i materiali e coprire le spese di trasporto, che per ora non abbiamo. Così, per il momento ogni incontro é suddiviso in due parti: una discussione di gruppo, partendo da un tema-guida e materiali che di solito trovo in internet, e un mini corso di inglese, con esercitazioni insieme, gestito da me e dalla traduttrice. Le risorse sono limitate, ma é bello vedere l’entusiasmo con cui le donne si presentano agli incontri e il sorriso pieno di gratitudine quando tornano a casa, contente di aver trascorso due ore lontane dal contesto di problemi e preoccupazioni quotidiane e in un clima di affetto e amicizia.
Febbraio 2009I RACCONTI DEI RIFUGIATI IRACHENI A ISTANBULUn direttore di banca, un operaio, un cameriere, un venditore ambulante, un barbiere, un ingegnere… Ognuno di loro con la propria storia, il proprio pezzetto di vita,ognuno con i propri ricordi e drammi personali… e tutti con una cosa che li accomuna: la fuga dal loro Paese, l’Iraq, che ha troppi problemi per prendersi cura dei propri cittadini e li costringe ad andarsene. Ho raccolto alcune delle loro storie durante il colloquio di registrazione in Caritas e nelle visite a domicilio. Vorrei riproporle come mi sono arrivate e con le impressioni che mi hanno trasmesso ascoltandole. Davoud ha 62 anni. Completo grigio, camicia bianca e cravatta celeste: riesco quasi ad immaginarlo a Mosul, nell’ufficio governativo presso cui lavorava come responsabile della contabilità: dipartimento dei Servizi Sociali. E’ arrivato in Turchia lo scorso luglio, con la moglie, un figlio e la nuora. Ha un’espressione buona sul volto, gli occhi gli brillano e non riesce a trattenere qualche lacrima quando gli chiedo i motivi della sua fuga. Mi racconta che é stato minacciato da un gruppo di terroristi che volevano che pagasse 30.000 dollari altrimenti avrebbero ucciso lui e i membri della sua famiglia. Già precedentemente due dei suoi figli avevano lasciato il Paese per rifugiarsi in Olanda perché la situazione era diventata troppo pericolosa per loro. Anche il figlio minore ha ricevuto minacce perché studente al conservatorio, cosa che non é ben vista dal gruppo di estremisti che controllano la zona in cui vive. Così sono fuggiti in Turchia e con loro é venuta anche la moglie di suo figlio che vive in Olanda, dove spera di raggiungerlo presto. Ora sono a Istanbul da sette mesi e sono registrati al programma per i rifugiati dell’UNHCR. Amer vive con sua moglie, quattro figli di 10, 9, 5 e 4 anni, e sua madre che di anni invece ne ha 73. Hanno trovato in affitto un appartamento molto piccolo a Istanbul e così sono costretti a dormire tutti nella stessa stanza. L’arredamento é molto povero: materassi di gommapiuma per dormire, un tappeto, una piccola televisione (che non manca mai anche nelle case piu’ povere) appoggiata su un tavolino. Nella stanza non c’é altro. In una camera a parte dorme la madre che non puo’ camminare ed é sempre a letto. Chiedo ad Amer di parlarmi della sua esperienza in Iraq e perché ha dovuto partire. Il racconto é breve: mi dice di aver ricevuto minacce e di aver visto suo fratello morire assassinato davanti ai suoi occhi ed é ancora sotto shock per questo. Io non faccio altre domande. Restiamo in silenzio finché i bambini entrano nella stanza portando un bicchiere d’acqua alla nonna e scherzosamente la prendono in giro perché ogni tanto si mette a parlare da sola. Così l’atmosfera cambia e si fa allegra e anche Amer sorride trasportato dall’allegria dei suoi figli. La casa di Kader invece é grande: una cucina, il bagno e tre stanze. Infatti in famiglia loro sono in dieci: Kader e sua moglie, due figli di 4 e 2 anni, le sue quattro sorelle e i suoi genitori. La cosa che colpisce di più nell’appar-tamento appena si entra é la mancanza di arredamento: ad accogliermi in una sala vuota ci sono solo tre sedie di plastica. Tre delle sue sorelle sono non-vedenti e con ritardo mentale, i suoi genitori sono anziani e necessitano di continua assistenza. Così é Kader ad occuparsi di tutto, di ogni necessità della famiglia, aiutato dalla moglie e dalla sorella maggiore. Alla domanda: “Perché hai lasciato l’Iraq?” la risposta si ripete come un ritornello: sono stati minacciati e non hanno avuto altra scelta, se non lasciavano la loro casa avrebbero rischiato di morire. Jwany ha 57 anni ma ne dimostra molti di più. A Baghdad ha perso 3 figlie e il marito. Lo scorso giugno insieme alla minore delle sue figlie ha lasciato l’Iraq per cercare rifugio in Turchia. Vado a visitarle nell’appartamento nel quale alloggiano e Jwany, rigorosamente vestita di nero, mi mostra le foto delle sue figlie: due di loro lavoravano come interpreti per le forze americane e questo é costato loro la vita. Suo marito invece é morto in seguito al dolore per quanto accaduto. Ora Jwany spera di poter partire per la Svezia, dove ha altri 3 figli che l’attendono, e dove forse potrà trovare un po’ di serenità. Sono molto colpita dalla storia di Jocelyn, forse per quello che le é accaduto o forse perché ha solo 26 anni ed é scappata in Turchia da sola, lasciando la sua famiglia. Inizia a piangere quando vuole parlarmi della sua esperienza ma poi controlla le lacrime e inizia a raccontare: é la prima di quattro figli, laureata in ingegneria civile. Viveva con la sua famiglia a Baghdad e un giorno un gruppo di uomini si é presentato a casa sua dicendo che avrebbero preso la figlia maggiore perché sposasse un uomo del loro gruppo. Suo padre si é opposto ed é stato picchiato nel giardino di fronte a casa mentre il resto della famiglia, impotente, si é rifugiata in casa. In seguito a quando accaduto, la famiglia ha deciso di spostarli e si é trasferita a casa di uno zio in un villaggio vicino. Ma suo padre ha continuato a ricevere minacce di morte se non avesse consegnato la figlia e, in segno di avvertimento, la loro casa é stata distrutta. E’ così che Jocelyn ha deciso di andarsene. Il viaggio era troppo costoso per tutta la famiglia e così é partita sola. In aeroporto ha incontrato un’altra famiglia irachena in viaggio per Istanbul che le ha offerto supporto e alloggio. Ora, come tutti gli iracheni in Turchia, Jocelyn é registrata presso l’ufficio dell’UNHCR che determinerà il suo stato di rifugiato e la destinerà ad un Paese di accoglienza, generalmente negli Stati Uniti, in cui poter ristabilire la propria vita. Marzo 2009 |
CHI E' SERENA... Nasce il 13 gennaio 1982 a Cernusco, dove ha studiato e si occupa di musica suonando nel Corpo Bandistico A.Pirovano, insegnando nella scuola allievi. Ha fatto parte anche della Swing Jazz Orchestra di Chiasso. Dopo la laurea in scienze dell'Educazione presso l'università degli Studi di Bergamo e dopo un anno di servizio civile a Istanbul per la Caritas, decide di stabilirsi a titolo definitivo nella città turca e di lavorare a contatto con donne e bambini iracheni. Da poco ha avviato un progetto dedicato alle donne irachene, per offrire loro la possibilità di uscire di casa e incontrarsi, svolgendo insieme attività di diverso tipo. |
Ottobre 2008, Ho trovato interessante il testo che vi propongo, perché parla della situazione degli iracheni cristiani e proprio dalle zone da cui arrivano le famiglie che assistiamo ogni giorno. Per ogni famiglia che arriva a chiedere assistenza in Caritas compiliamo un modulo in cui sono richieste varie informazioni e tra queste la provenienza: sono tutte famiglie di cristiani provenienti da Baghdad, Mosul o Ninive che scappano dalla situazione di estrema violenza e pericolo in cui si trovano. A volte chiedo loro i motivi che li hanno spinti a lasciare il loro Paese e ogni volta ascolto storie di minacce di morte, di figli rapiti e spariti nel nulla, fratelli e mariti uccisi... Tutti arrivano qui per lo stesso motivo: la sopravvivenza loro e dei loro cari, minacciata dai cosiddetti 'terroristi islamici'. Inutile sarebbe tentare di parlare con loro di tolleranza religiosa, di fratellanza e di possibile dialogo nella diversità di fedi... Risulterebbero parole senza senso per chi ha visto morire parenti e amici solo perché cristiani, in un mondo ora dominato dalla violenza di gente che compie atti terribili in nome di una religione (quella islamica), che in realtà non hanno alcun legame con la fede, ma sono dettati solo dall'ignoranza e dalla cattiveria umana. “IL PIÙ MASSICCIO ESODO IN MEDIO ORIENTE DAL 1948” L’incessante violenza in gran parte delle regioni centrali e meridionali dell’Iraq costringe tuttora migliaia di persone ogni mese a fuggire dalle proprie case, portando all’attenzione dell’opinione pubblica una drammatica crisi umanitaria, che si è rivelata persino più grave di quanto le agenzie umanitarie avessero previsto all’inizio della guerra nel 2003. In base alle stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), sono quasi 2 milioni gli sfollati all’interno dell’Iraq e altrettanti i rifugiati iracheni nei paesi limitrofi, soprattutto in Siria e Giordania. Molti di loro erano fuggiti già prima del 2003, ma molti altri sono fuggiti dopo l’inizio della guerra e migliaia continuano a scappare tuttora, tanto che nella prima metà del 2006 quello degli iracheni era il più numeroso gruppo nazionale di richiedenti asilo in Europa. Gran parte dell’attività dell’UNHCR nei primi tre anni successivi alla caduta del regime di Saddam Hussein si è basata sulla convinzione che la situazione nel paese si sarebbe progressivamente stabilizzata fino a consentire alle centinaia di migliaia di iracheni sradicati di poter tornare a casa. Tuttavia, durante il 2006 una nuova spirale di violenza ha innescato un ulteriore esodo che ha indotto l’UNHCR a ridefinire la propria attività e le proprie priorità nella regione, passando dall’assistenza al rimpatrio all’assistenza a 50mila rifugiati non iracheni che si trovano nel paese e alle migliaia di persone che continuano a fuggire ogni mese. Tra il 2003 e il 2005, oltre 250mila iracheni avevano fatto ritorno nel proprio paese da Iran, Arabia Saudita, Libano, Giordania e altri paesi. Attualmente, invece, i rimpatri si sono arrestati, mentre è ripreso l’esodo, anche da parte di molti professionisti e specialisti che potrebbero svolgere un ruolo fondamentale nella ripresa dell’Iraq. Oltre alle persone fuggite fuori dell’Iraq, durante il 2006 oltre 500mila persone hanno cercato rifugio in altre aree del paese, la maggior parte delle quali a seguito della violenza settaria innescata dal bombardamento di un’importante moschea sciita nel febbraio 2006. Questo esodo nell’incessante violenza in Iraq sta ponendo un’enorme sfida umanitaria ed enormi sofferenze sia alle persone radicate, sia alle famiglie e alle comunità che le accolgono. Le enormi dimensioni delle necessità, la violenza e le difficoltà di accesso agli sfollati rendono l’impegno particolarmente arduo per le agenzie umanitarie, compreso l’UNHCR. Con il passare del tempo, inoltre, le persone in fuga e le comunità che le ospitano stanno esaurendo le proprie risorse. Molti iracheni fuggiti nei paesi limitrofi non cercano inizialmente l’assistenza dell’UNHCR, ma fanno affidamento su una rete sociale di parenti e amici che tuttavia si sta rapidamente assottigliando, accrescendo i problemi sociali tra gli esuli e talvolta dando vita a tensioni con le comunità ospitanti. L’Agenzia è impegnata nel tentativo di fornire assistenza a coloro che fuggono, e in particolare ai più vulnerabili come le famiglie con a capo una donna, gli anziani, i bambini e le famiglie senza più risorse. L’UNHCR è inoltre particolarmente preoccupato per la situazione di circa 15mila-20mila rifugiati palestinesi che si stima si trovano ancora in Iraq e delle comunità cristiane e altre comunità minoritarie del Paese, anch’esse sotto minaccia.
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